venerdì 11 novembre 2016

Giufa

Sabato e domenica in quel di Monselice prosegue si riapre l'esposizione 
dedicata al pater.
Probabile nonché possibile Lampo Poetico nel bel mezzo della quiete palladiana del luogo.





sabato 3 settembre 2016

Mostra delle opere di Giufa in Monselice


Giufa

Giuseppe, padre.

Cent’anni fa, esattamente il 31ottobre, nasceva in Monselice di Padova Giuseppe mio padre. Il 31 ottobre 2016, sempre in Monselice (seguiranno dettagli), sarà inaugurata una retrospettiva pittorica di Giuseppe, in arte Giufa[1]. L’allestimento sarà composto da ciò che rimane in possesso della mia famiglia, dipinti a olio, acquarelli, qualche opera in bronzo e tante “vignette” satiriche talune pubblicate altre no. Le vignette hanno come bersaglio, di preferenza, gli immutabili vizi di una classe dirigente italica repubblicana di lunga mano e corta vista, o la marcescente attività di taluni soggetti del sindacato, che in ciance e su carta parrebbero essere schierati dalla parte del popolo che lavora, e che di fatto schierati sono, ma alle spalle del popolo, a minacciarne le terga. Giuseppe derisore di corruzione e cecità spirituale. 

     Giuseppe venne a Parma nell’età dell’adolescenza per riunirsi al resto del suo clan qui a sua volta giunto, probabilmente, al seguito delle romane schiere farnesiane. Giuseppe si formò come professionista e artista all’accademia d’arte Toschi di Parma e come uomo sociale e libero pensatore all’interno di un nucleo familiare molto attento all'incedere politico della società. Giuseppe deriva da un prozio albertino e un nonno garibaldino, patrioti che a vent’anni partirono come volontari. Il primo caduto sul campo (se vi interessa c’è una lapide sotto le volte del comune) e il secondo tornato vittorioso. Il fermento c'era, si andava dal mangiapreti alla suora missionaria nelle Indie o in Colombia. Voci di parenti narrano addirittura di una bottega verduraio-letteraria gestita da mie prozie tra aromi dell'orto e incontri culturali.


Umberto, nonno.

    
Giuseppe liberale e monarchico, d’animo francescano detestava i soldi in quanto accumulo di cupidigia e l’automobile vista come contenitore claustrofobico della nostra supponente impotenza muscolare e spirituale.

    Giuseppe non ha avuto, e nemmeno agognava ad averla, una vita di porte aperte nella settaria Parma. Era un veneto di nascita e di madre che poco si intonava con le tinte rosso-rosetta del bolsc-ducato nonché al brevilineo pensiero dogmatico di una branchia della sua classe intellettuale e dirigente. A tutto questo Giuseppe ha sempre risposto col sorriso e con l’elegante sberleffo. A volte nei momenti più bui echeggiava un passaggio poetico preso a prestito dalla composizione poetica Sant’Ambrogio del Giusti che leggermente modificata diceva: Povero Fabi! lontano da’ suoi, 
in un paese qui che gli vuol male, 
chi sa che in fondo all’anima po’ poi non mandi a quel paese il principale! la declamazione era seguita da un ridacchiare solitario. 
    Giuseppe fu uomo di grande spessore e probabilmente anche un bravissimo padre, ma come esige il copione della tragedia umana, io ebbi un rapporto conflittuale con questo uomo dalle mille risorse e non riuscimmo a lasciarci avendo “aggiornato” i nostri racconti dell’uno all’altro. Forse per questo provo una certa pena per le famiglie felici e beate al loro interno, in primo luogo perché molte tra queste se la raccontano un poco, e quand’anche vi fosse realmente un brandello di vero, rimane sempre il cozzare con la vita che sta fuori dal castello, e con la morte quando la pila è scarica. Quindi la mia scalcinata e traumatizzata memoria giocherà di sorteggio al frammento, non avendo il coraggio di mettere tutte le cosine in fila e in ordine, riservando questa attività alla mia zona simbolico-ossessiva che si esplicita in cassetti chiusi o al rincorrere le luci accese per non parlare delle universali righe divisorie delle piastrelle. Quindi comporrò questo dovuto ricordo coi racconti che qui seguono, ripromettendomi di aggiornare lo scritto ogni qualvolta mi erutterà una rimembranza. Senza ordine né logico né cronologico. A buon leggere.


L'uomo nel faro
...Giuseppe era anche chiamato, dai miei amichetti, Guardiano del Faro, un po' per una somiglianza con il cantautore compositore omonimo allora molto in voga, un poco per la capigliatura a vento di mare ma soprattutto per la sua capacità di astrarsi dal mondano, più volte lo si vedeva tornare a casa con bozzi in fronte o cappotti strappati per via di cadute disastrose in vespa e non dovute a eccessi alcolici ma a visoni di mondi paralleli al nostro misero. Una sera fui testimone di un avvenimento emblematico, Giuseppe a braccetto con mia sorella si sta leggendo un libro e al tempo stesso cammina. Mia sorella ha lo sguardo fisso di fronte a sé. Incocciano contro un albero. Entrambi gli sguardi stupiti sono rivolti all’albero. Si scansano, dato che l’albero non ha ceduto il passo, di quel poco necessario a riprendere il cammino, e ritornano nel loro mondo passeggero, passeggiando...

Sior tenente ...Giuseppe, il giorno del suo funerale aveva ben sei tra preti e frati a dire messa, ma quel che più mi rimase impresso furono i suoi soldati e quella qualità di pianto che ho visto solo in quell’occasione. Che la comanda sior tenente...


Giuseppe, Grecia.

Molto avanti
...Giuseppe disegnò il primo logo del centro macrobiotico, era in combutta, e parliamo degli anni sessanta, con quei folli alieni atterrati nella terra del maiale per riconvertire la razza mangiagosini in mangiatori di foglie e bambù. Arrivò quindi a casa nostra il primo pane di non so che, una sorta di truciolato di fieno, che ebbe vita breve. Forse il gusto nuovo era un poco eccessivo per i tempi e fu allora mi fu rivelato che, oltre agli asini, anche il pane sa volare...


Sulla scacchiera
Giuseppe, prigionia.

 ...Giuseppe non mi parlò mai della sua prigionia in terra tognetta, ma riportò a casa dei piccolissimi scacchi intagliati (forse dal legno delle baracche) che emanavano un odore pungente e talmente particolare che saprei scovarli (sono andati perduti…) ovunque si celassero ora. Per me rimane quello il profumo della guerra. Due aneddoti mi sovvengono, il primo molto in stile Giufà vede Giuseppe ad Atene salutare militarmente un ufficiale d’alto grado, e forse sarebbe ancora lì nella stessa marmorea posizione se detto ufficiale d’alto grado non avesse immediatamente rivelato al tenentino Giuseppe d’essere un semplice portiere d’albergo. Il secondo, rivelatomi da uno dei suoi fratelli, vede il Giuseppe pronto ad immolarsi per la Patria, era giunto l’ordine di partire per un attacco frontale con finale garantito all’ultimo sangue. Giuseppe era già pronto con sciabola sguainata a guidare l’attacco quando giunge il contrordine. Non so ancora quale degli dei io debba ringraziare per essere giunto in questo mondo diciassette anni dopo.



Lupa
Nella, madre.

...Giuseppe corse appresso a quella bella donna ombrosa che in seguito divenne mia madre la raggiunse e bloccandola a metà di via Bixio le chiese un appuntamento. L’ombrosa tornando a casa disse al fratello di essere stata fermata da uno strano tipo, un poco matto e decisamente bassetto. Una cugina mi confesso che Giuseppe era un scapadòr, letteralmente uno scappatore che nel gergo locale significa persona che tende talvolta alle sfrenatezze gonnellate offerte dalla vita... ma la Lupa l'azzannò.

Nella, madre.
Il bisnonno (mio)
... Non amo molto la realizzazione fonetica del lemma "nonno", mi dà, a prescindere dalle condizioni di salute del protagonista, l'idea di rimbambito. Forse sarebbe meglio trasformare il termine in "grande padre" usando un francesismo un poco forzato, o ancora "padre magno", "veterano della domus" e perché non un semplice "avo". Penso che la sensibilità estrema a questo mio dilemma linguistico  stia nel semplice fatto che pure io sono divenuto nonno e sto cercando di mutare, ora che il piccolo Leonida  ancora non parla, la parola nonno in qualcosa d'altro. Ma non è di questo che il frammento vuol raccontare, ma del padre del mio grande padre. Personalmente non ho conosciuto nessuno dei due quindi mi atterrò a pochi brandelli di cronaca familiare giunti a me. Michele, figlio di Luigi, nacque negli anni '40 dell'ottocento e a vent'anni, sospinto probabilmente dalla eroica figura che senz'altro aleggiava in casa Fabi del fratello Luciano partito volontario per unirsi a Carlo Alberto nella Prima Guerra d'Indipendenza e morto a Novara nel '49, partì per combattere a fianco del Garibaldi Nostro sul Volturno. Da quello che so rimase un garibaldino a vita instillando nei figli un amor patrio che tuttora mi pare di scorgere nei suoi pronipoti. Guardando la fotografia di Michele mi posso immaginare un uomo arguto e combattivo: un giusto. Gli occhi due carabine pronte a far fuoco un poco sorridono un poco minacciano. Barba da addobbo guerriero, naso aquileggiante e magrezza da lavoro. Il mestiere della mia tribù era il falegname intarsiatore e anche questo permane in noi, per esempio io sono molto più avvezzo a intagliare il legno che a fare denaro o macellare del gosino e Flavio maneggia mazze seghe e coltelli da intaglio dalla tenera età di tre anni. Che dire ancora? Grazie grande grande padre.








[1] È probabile, ma non so con certezza, che la scelta dello pseudonimo sia collegabile a Giufà, ingenuo protagonista di cunti siciliani, personaggio a sua volta derivato da culture mediterranee, dalla giudaico-ispanicha fino all’islamica nella sua forma mistica sufi, dove il protagonista è alla costante ricerca dell’essenza dell’umano esistere, del nudo nocciolo della verità in contrapposizone alle vane apparenze. Giuseppe era un po’ così, distaccato dalla materia amava giocare con le parole e i colori. un giorno mia madre (di stirpe montanaro-lupesca) rimproverandolo per il suo disprezzo verso il denaro, il più delle volte concretizzato in portafoglio vuoto per doni a poveri e bisognosi, Giuseppe rispose indicando il cuore e disse qui sta la mia ricchezza, e questo fu ciò che io ereditai. Grazie. Non ho duvuto nemmeno pagare tasse di successione.

mercoledì 11 maggio 2016

fiabe di paura


Un’azione teatrale progettata per un luogo metateatrale: in un angolo della piazza, nel salotto buono di casa, o nella lavanderia a gettoni.
Le fiabe di paura ci parlano della sfida tra l’uomo e i suoi fantasmi.  E come ben sappiamo, senza per questo ammetterlo apertamente, i fantasmi esistono e le fiabe sono molto semplicemente cronache reali della lotta tra luci e ombre.
 
Quelle riscritte da noi, e riscritte a ogni nuova replica, sono degli “spartiti vocali” alla costante ricerca delle sonorità e della musicalità che sgorgano nell’esercizio dell’espressione orale. È importante per una fiaba avere un suono, una consistenza sonora. Una fiaba per essere tale deve essere raccontata, e solo con la “trasmissione in voce” può essere condivisa, e compiere la sua missione catartica. È con la sonorità che una storia diviene immagine senza alcun peso. L’immagine, quella fatta di materia pesante e ingombrante, è ridotta al minimo. Attori e burattini. Voci e legno.

Tre fiabe:
“Due gobbi” narra di due fratelli, uno intelligente e sensibile, l’altro allocco e coriaceo. I due percorrono la stessa strada, incontrano le stesse opportunità, ma il loro destino a un certo punto diverge. A volte il nostro destino è solo questione di stile.
“Zio Cocon”: una bambina golosa e bugiarda sceglie la via della menzogna per soddisfare le sue bramose voglie di cibo e finisce, incappando nella legge che dice chi di cibo ferisce di cibo perisce, tra le fauci del vendicativo zio. La menzogna ha gambe corte e digestione lunga.
“Giuanin senza paura”: un ragazzo totalmente privo di paura affronta un orribile gigante sorseggiando vino e mangiando salame. Finirà per liberare il mostruoso essere da un noioso incantesimo che lo imprigiona in un camino. La paura è come il peperoncino, brucia ma fa bene alla salute.


In Fiabe di paura cerchiamo di ricreare l’atmosfera aperta e libera di un teatro fuori dalla forma convenzionale di rappresentazione. Non “fingere d’essere” ma “giocare all’essere”. Senza pareti a dividere, spezzando trame e ritmi in un sincopato incedere del racconto.
Si lavora su più piani: quello del racconto proveniente da un testo e quello all’improvviso scaturito da un’idea, da un capriccio dell’attore o del pubblico.
Il racconto fiabesco non ha limiti di tempo o spazio. Ci rivolgiamo verso il bambino, che sia tale per età o per scelta, in grado di costruire nel nulla un mondo.

UF
347 22 74 484


lunedì 29 giugno 2015

ignoto Militi




IGNOTO MILITI
diario di un viaggio latino tra terra e cielo

studio scenico
dedicato al milite ignoto

testo Umberto Fabi
organizzazione Marco Formato
produzione Scenari Armonici

note di riflessione e regia


La Prima Guerra Mondiale ha emesso un solo verdetto sicuro: l’umanità perde e la tecnologia stravince, superandoci se non in crudeltà quantomeno in efficacia. L’impatto della tempesta d’acciaio è devastante, ma non per questo cesseranno le guerre. La primaria umana pulsione a farsi seriamente del male tra uomini e uomini è riassunta in modo semplice quanto efficace da una frase attribuita all’Imperatore Giuliano: gli uomini hanno sempre amato distruggere quanto costruire. Questo spiega perché la guerra è tanto popolare.
La guerra è popolare, un dramma condiviso che ha come protagonista e spettatore il popolo, una tragedia collettiva intessuta di tantissime tragedie individuali. La più atroce e ancestrale è la tragedia della madre mutilata del suo arto più caro, il frutto del suo ventre. Accudito nel mistero dei nove mesi in grembo, sfamato, allevato, amato di un amore incondizionato e assoluto e infine perso tra i lampi di una guerra cieca. Per quella madre non può esserci consolazione né risarcimento alcuno. Non su questa terra. C’è solo solitudine. C’è solo dignità.
Il nostro racconto dedicato al Milite Ignoto è la storia di quell’arto di madre reciso, della madre e di un intero popolo, della metamorfosi di colui che era giovane uomo con un volto e un nome e ora si ritrova trasformato in ignoto che rinasce in forma simbolica e universale, delle emozioni che questi richiama dal cuore indurito di chi ha vissuto guerra e lutti. È la cronaca del viaggio dei suoi miseri resti verso la culla terrena del Vittoriano e di quello della sua anima verso eterni spazi. È anche un’occasione per riflettere sui profondi significati dell’innato istinto guerresco dell’uomo, del valore e dei Valori della vita, della sua sacralità. È una possibile risposta alla banalità imperante del pacifismo salottiero, che nulla ha in comune con la nobile Pace, che ciancia per cianciare dei mali del mondo che imputa ad altri, ignorando (volutamente?) che violenza e crudeltà non sono prerogative di quel popolo o di quella fede religiosa o politica, ma presenze costanti della nostra esistenza, istinti primordiali che devi ricercare e riconoscere innanzi tutto in te stesso, non negarli sdegnosamente, per sperare di poterli dominare o perlomeno controllarli.
Ignoto Militi è una storia dove la concreta desolazione delle ferite e delle macerie si redime nel sentimento collettivo di pietas per il Figlio della Patria. In guerra sono pochissimi coloro che si salvano, neppure i vincitori. Il Milite Ignoto è il solo a salvarsi, è lui il pianto e ammirato da tutti, è lui il redento da ogni peccato e più non importa se fosse un volontario o un coscritto, un eroe o un vigliacco, un siculo o un lombardo, è al di là, è al di sopra delle misere parti imposte dal copione dell’esistenza. Il Milite Ignoto è il figlio di tutte le madri, è il perdono dei suoi e dei nostri peccati, è una stella luminosa nel cielo che ci sovrasta.
Retorica di regime? Astuta invenzione per distogliere il popolo in pieno subbuglio sociale dal compiere azioni rivoluzionarie ai danni di quello Stato che come spesso accade promette e non mantiene? Il Milite Ignoto è ben oltre alle polemiche, oltre la meschinità di coloro che volontariamente o meno hanno usato ancora una volta il soldato senza nome per proprio tornaconto. È oltre e parla al cuore. Il popolo, tante volte sordo volontario, in questo caso sente benissimo il lamento profondo che sorge dalla bara del Figlio di Tutti, lo testimoniano le immagini e gli articoli che parlano di una partecipazione popolare spontanea al di là di intenzione e apparato scenico. È un popolo unito in una comunione di patriottismo ancestrale, sono lacrime, volti bassi, preghiere semplici, cappelli levati e ginocchia sugli spigolosi sassi della ferrovia. È la Passione popolaresca al passaggio del Cristo povero, crocefisso dall’imperscrutabile fato all’affusto di un cannone.

U.F.

prima romana del 24 maggio
foto di Marco Repetti






mercoledì 24 settembre 2014

Valentino è Tango

Il testo qui sotto è un brandello del monologo in musica di Valentino è Tango. Ultima produzione di Scenari Armonici da un'idea del fisarmonicista Renzo Ruggieri e con la scrittura di Umberto Fabi. 





foto U.Fabi


America

1913.
Valentino ha diciotto anni. 
Scende dalla motonave Cleveland e sale sulle piste dei thé-dansant. 
È diventato un bravo ballerino. Molto bravo. Si applica con tenacia il ragazzo svogliato. Apprende e studia tecniche della nuova danza argentina. Studia l’inglese la pronuncia è perfetta. È diventato anche socievole espansivo simpatico. Forse le Puglie non gli ispiravano il buon umore.
Sti fimmini ‘mericane sono tutta un'altra cosa…
Nuovo mondo. Nuovo pensiero.
È eccentrico Valentino. Porta un orologio come fosse un braccialetto: al polso.
L’orologio come nu bracciale da fimmina? Scusa, ma non è per caso che ‘sto Di Valentina sia nu poco ricchiuncello?
New York comincia a scottare c’è qualche marito che bolle. Non c’è problema. L’America è lunga lunga e larga larga si va a ovest.
Los Angeles. Se c’è poco lavoro meglio oziare al sole della California.
Valentino ha i primi timidi approcci con la giovanissima Musa. La settima. Non dice nulla. Si fa ammirare. Per ora. Mirare non tangere.
Per ora offre a Valentino solo ruoli di comparsa in costume.
Stereotipate apparizioni di secondo piano.
bullo italiano.
un irlandese.
cavaliere medievale in armatura.
apache nel film Ladro di Perle…
nu pugliese che ti fa l’indiano? Augghè guagliò!… ma faciteme u piaciri!
Valentino non molla e ne approfitta per affinare la sua tecnica.
Valentino è un attore con le palle e si fa il mazzo.
La Musa china la testa di fronte a Valentino. Quel tanto che basta.
E qualcosa comincia a cambiare.
Nel film Eyes if Youth. Valentino appare in una sola bobina nel ruolo di un furbacchiotto con tanto di bombetta e collo di pelliccia dalla camminata spavalda e volgare. Pochi minuti in un ruolo secondario. Bastano.
Il suo alfabeto gestuale è una danza perpetua: per come si versa da bere. Per come sfila lo scialle alla femmina mirata. Per come vince ogni sua resistenza con decisa dolcezza.
Nessun attore cinematografico ha una tale maestria di movenze. È spremuta di sesso con tanta polpa.
È lui il Great Lover perfetto per il ruolo di Julio il tragicissimo amante del film I Quattro Cavalieri dell’Apocalisse.
Parola di June Mathis la Dante Alighieri di Hollywoodlandia

6 Marzo del 1921.
Dalla sommità del monte Holliwood Valentino il nuovo Zeus si prepara a scagliare la sua folgore di luce sul bianco telo del mondo
Poco importa se lo scranno del re e le rocce del monte sacro sono di cartapesta e il dio di celluloide.
Il secolo breve sarà secolo d’illusioni e d’illusionisti.

sabato 29 marzo 2014

addio mamma Italia, non più esule, accolta laddove non vi sono confini.

informazioni

La mia foto
Attore, regista, autore e docente. Prediligo la ricerca del vero attraverso l'arte espressiva teatrale. Sperimento la vocalità come forma musicale del teatro d'attore. Scrivo testi che partendo dallo storico si avviano all'epico. Lavoro volentieri con burattini e musicisti, qualche volta anche con attori. Opero in spazi non convenzionali e mi arricchisco: lo spirito. Spazi di confine mi ospitano. L'aikishintaiso, pratica interna dell'arte marziale dell'aikido, mi tiene aggiornato il corpo e la mente, quando questa è in me.

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telefono +39 347 22 74 484

e-mail umbertofabi@gmail.com